Qual è il giusto equilibrio tra l’esigenza di trasparenza riguardo ai titolari effettivi e alle strutture di controllo delle società, che assume un ruolo fondamentale nell’ambito della prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone interessate, vale a dire dei titolari effettivi stessi e – segnatamente – il loro diritto al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali?
È questa la domanda cui la Corte di Giustizia Europea ha dovuto rispondere, originata da due ricorsi al Tribunal d’Arrondissement de Luxembourg da parte di una società lussemburghese e del titolare effettivo di un’altra azienda dello stesso Paese, che avevano chiesto senza successo al Luxembourg Business Register (equivalente alla nostra Camera di Commercio) di limitare l’accesso del pubblico alle informazioni che li riguardavano.
La questione verteva sulla validità e sull’interpretazione dell’articolo 30, paragrafi 5 e 9, della Direttiva (UE) 2015/849, come modificata dalla Direttiva (UE) 2018/843. Va ricordato che tale Direttiva ha istituito un regime di accesso pubblico ai Registri dei Titolari Effettivi delle società, e altre entità giuridiche costituite nel territorio degli Stati Membri, senza che fosse necessario dimostrare un qualunque interesse. Anche l’Italia si era adeguata con la pubblicazione del Decreto Ministeriale 11 marzo 2022 n. 55 in attuazione dell’art. 21 D. Lgs. n. 231/2007, che stabiliva le formalità per assolvere all’obbligo di comunicare il titolare effettivo al Registro delle Imprese.
La Corte si è quindi dovuta interrogare sulla validità di tale regime alla luce dei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e familiare e alla protezione dei dati personali, sanciti rispettivamente agli articoli 7 e 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Ed ecco la decisione della Corte: «L’accesso del pubblico alle informazioni sulla titolarità effettiva costituisce una grave ingerenza nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali». La decisione assunta ha tenuto conto del fatto che un numero potenzialmente illimitato di persone poteva acquisire informazioni sulla situazione materiale e finanziaria del titolare effettivo, informazioni che avrebbero potuto essere non solo consultate liberamente, ma anche conservate e diffuse.
La Corte rileva che il legislatore dell’Unione aveva l’obiettivo di prevenire il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo nell’interesse generale, giustificando così ingerenze – anche gravi – nei diritti fondamentali sanciti agli articoli 7 e 8 della Carta. Tuttavia, pur considerando l’importanza di un tale sistema normativo, la Corte ha concluso il suo esame giudicando l’ingerenza risultante da tale misura non limitata allo stretto necessario, né proporzionata all’obiettivo perseguito. Oltre al fatto che le disposizioni di cui è causa autorizzano la messa a disposizione del pubblico di dati che non sono sufficientemente definiti, né identificabili, il regime introdotto dalla Direttiva Antiriciclaggio rappresenta una lesione considerevolmente più grave dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta rispetto al regime anteriore. Tale regime, oltre all’accesso da parte delle autorità competenti e di determinate entità, prevedeva quello da parte di qualunque persona od organizzazione che potesse dimostrare un legittimo interesse. Un simile aggravamento, inoltre, non risulterebbe compensato da eventuali benefici che potrebbero derivare dal nuovo regime sotto il profilo della lotta contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. In particolare, l’eventuale esistenza di difficoltà nel definire con precisione le ipotesi e le condizioni in cui sussiste un reale legittimo interesse, invocate dalla Commissione, non può giustificare il fatto che il legislatore dell’ Unione preveda l’ accesso del pubblico alle informazioni in questione.
La Corte ha poi aggiunto che le disposizioni facoltative che consentono agli Stati Membri di subordinare la messa a disposizione delle informazioni sulla titolarità effettiva a una registrazione online e di prevedere – in circostanze eccezionali – talune deroghe all’accesso del pubblico a tali informazioni, non sono di per sé idonee a dimostrare né una ponderazione equilibrata tra l’obiettivo di interesse generale perseguito e i diritti fondamentali prima citati, né l’esistenza di sufficienti garanzie che consentano ai titolari effettivi di proteggere efficacemente i propri dati personali contro i rischi di abusi.
Quindi, si tratta di una norma da riscrivere. Certamente mantenendo un pieno rispetto del principio di trasparenza, ma senza ledere un principio non meno importante, ovvero quello di proporzionalità. Ricordiamo che secondo l’articolo 52, paragrafo 1, seconda frase della Carta, possono essere apportate limitazioni all’esercizio di un diritto fondamentale riconosciuto dalla stessa solo se esse rispettino il principio di proporzionalità che esige – secondo una costante giurisprudenza della Corte – che gli atti delle istituzioni dell’Unione siano appropriati a realizzare gli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa in oggetto e non superino i limiti di ciò che è idoneo e necessario al conseguimento degli obiettivi stessi. Ricordando che la norma recentemente pubblicata dal legislatore italiano era comunque ancora non operativa per la mancanza di alcuni provvedimenti attuativi, restiamo dunque in attesa delle decisioni cui giungerà il nostro Paese. Auspichiamo che si arrivi alle medesime determinazioni del Lussemburgo, che a poche ore dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dovuto prendere atto della decisione e sospendere l’accesso al portale online dove era possibile consultare liberamente le informazioni raccolte.
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Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF Magazine di gennaio 2023.
Di Paolo Bertoli Direttore Responsabile di ANDAF Magazine