Di Paolo Bertoli
Un’economia globalizzata e sempre più aggressiva, caratterizzata dalla crescente ricerca di innovazione da parte delle imprese per essere concorrenziali, ha determinato nel tempo la trasformazione e l’aggiornamento del concetto stesso di innovazione.
Il modello tradizionale definito Closed Innovation guardava infatti all’innovazione come a uno dei fattori principali di vantaggio concorrenziale nei confronti delle altre aziende, ma con il cambiamento dei mercati e dei modelli economici è divenuto svantaggioso e vulnerabile.
Si parla oggi di Open Innovation, un nuovo paradigma indirizzato verso un’apertura nella ricerca di innovazione che va oltre i confini dell’impresa. Perché un’azienda in questo contesto riesca a innovare restando sul mercato è infatti necessario considerare lo sviluppo del business come un sistema senza confini. Per innovare servono idee, prodotti, talenti e non tutto può venire dall’interno dell’impresa, ma è necessario ricorrere anche a strumenti e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno, in particolare start up, Università, Istituti di ricerca, fornitori, inventori, programmatori e consulenti.
Il termine è stato coniato dall’economista statunitense Henry Chesbrough che, nel saggio “The era of open innovation” (2003), rifletteva sul fatto che la globalizzazione avesse reso sempre più costosi e rischiosi i processi di Ricerca e Sviluppo, perché il ciclo di vita dei prodotti era diventato più breve. Secondo Chesbrough il paradigma della Closed Innovation non poteva più bastare, nonostante i timori delle aziende di non essere più gli unici “proprietari” delle invenzioni e i legittimi tentativi di tutelare le proprie proprietà intellettuali con brevetti e altri strumenti.
Per le aziende che la adottano, l’Open Innovation offre numerosi vantaggi: riduce i principali aspetti negativi del produrre in casa l’innovazione (alti costi, necessità di competenze verticali, time to market allungato) e stimola con input esterni l’innovazione aziendale su temi chiave per il business (prodotti, servizi e approcci innovativi, persone “differenti”), dà accesso a potenziali tecnologie su cui investire, fa aumentare le competenze del management e delle risorse interne in uno scenario di mercato sempre più “digital” e, infine, apporta benefici in termini di CSR.
In questo scenario coesistono più attori: un crescente numero di start up che vivono di innovazione (oggi sono oltre 6.000 in Italia), gli investitori tradizionali (fondi d’investimento e di Venture Capital) tra cui si registra un crescente interesse verso il mondo delle start up e il Corporate Venture Capital – CVC (30% delle start up italiane ricorre proprio a investitori di questo tipo), che consente alle aziende di diversificare i propri investimenti, proteggersi da eventuali competitor e migliorare il core business. Tale soluzione si rivela quindi vantaggiosa per entrambi i soggetti: le start up forniscono l’innovazione di cui le grandi imprese necessitano, acquisendo in cambio – attraverso il CVC – il finanziamento e la spinta indispensabili al loro sviluppo.
L’azienda perciò sceglie, come soluzione di equilibrio tra impegno finanziario e impatto organizzativo, il networking strutturato, ossia mette in atto un mix di soluzioni nell’ottica della flessibilità e del costante aggiornamento.
Un esempio ben riuscito è rappresentato da Enel che, nel 2015, ha avviato un programma esteso di Open Innovation con importanti investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo, ma anche accordi e collaborazioni con start up e partnership con fondi di Venture Capital. Ritroviamo lo stesso approccio in Electrolux. La multinazionale svedese dell’elettrodomestico ha infatti messo in campo una strategia globale guidata da un team dedicato, il quale fa da ponte tra ecosistemi esterni di innovatori e le funzioni aziendali.
«La sfida consiste nell’andare oltre la rete di player con cui già interagiamo – ha recentemente dichiarato Lucia Chierchia, Open Innovation Director del Gruppo svedese – catturando soluzioni innovative in quelli che possiamo chiamare gli “ecosistemi non tradizionali”, dove vivono persone brillanti con differenti background: inventori che costruiscono prototipi in garage, start up con innovazioni tecnologiche “disruptive”, grandi aziende ma lontane da noi per settore tecnologico o di business».
Alcune imprese, al contrario, preferiscono investire su realtà imprenditoriali già avviate, ritenute quindi più solide, piuttosto che intraprendere la strada dei Venture Capital o dare vita a strutture fluide e in costante aggiornamento. Una scelta, questa, orientata dalla volontà di limitare i rischi dell’investimento stesso.
Sono le dimensioni e le capacità finanziarie dell’azienda a determinarne la disponibilità a investire e le modalità con cui farlo. Ciò che resta invariato, al mutare dei possibili scenari, sono i presupposti del successo del paradigma della Open Innovation: un forte impegno, nonché una reale adesione ai principi aziendali da parte del vertice, tali da rendere possibile la risoluzione delle fasi di crisi o arresto che un progetto può sperimentare; per lo stesso scopo è fondamentale anche il totale coinvolgimento del middle management.
Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF di Luglio 2017