Di Paolo Bertoli
(Dal Sole 24 Ore e da Il Tempo)
L’ultimo intervento normativo è quello della Legge 190/2014, articolo 1, commi 26 e seguenti, che introduce la possibilità di chiedere, da parte dei lavoratori dipendenti assunti da almeno sei mesi, l’anticipazione della quota maturanda di TFR, con una scelta che una volta effettuata è irrevocabile fino al giugno del 2018.
Il requisito dei sei mesi si considera soddisfatto anche nei casi di operazioni straordinarie come la cessione d’azienda o di ramo d’azienda, nei quali il rapporto prosegue senza soluzione di continuità.
Ci sono tipologie di lavoratori a cui l’anticipazione del TFR non si applica:
– dipendenti domestici;
– dipendenti del settore agricolo, a prescindere dalla specifica qualifica (operai, impiegati, dirigenti, ecc.);
– dipendenti per i quali la legge o il contratto collettivo nazionale di lavoro, anche mediante il rinvio alla contrattazione di secondo livello, prevede la corresponsione periodica del TFR oppure l’accantonamento presso soggetti terzi (esempi: marittimi, edilizia);
– dipendenti da datori di lavoro sottoposti a procedure concorsuali;
– dipendenti da datori di lavoro che abbiano iscritto nel registro delle imprese un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis della Legge Fallimentare (267/1942);
– dipendenti da datori di lavoro che abbiano iscritto presso il Registro delle imprese un piano di risanamento di cui all’art. 67, comma 2, lettera d, della Legge Fallimentare;
– lavoratori di aziende in cui siano in corso interventi di integrazione salariale straordinaria e in deroga, se in prosecuzione dell’integrazione straordinaria stessa. Questa esclusione vale solo per il personale dell’unità produttiva interessata dalla cassa integrazione;
– lavoratori dipendenti da datori di lavoro che abbiano sottoscritto un accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti di cui all’art. 7 della Legge 3/2012.
Non possono inoltre chiedere l’anticipo del TFR i lavoratori che abbiano già usato la liquidazione come garanzia di finanziamenti (fino alla fine del contratto di finanziamento). L’opzione per l’anticipo del TFR è invece esercitabile da coloro che hanno destinato parte della liquidazione a forme di previdenza complementare.
La domanda è: a chi conviene maggiormente farsi anticipare il TFR in busta paga? Naturalmente la prima considerazione da fare è del tutto personale e riguarda il fatto che si tratta di una somma che viene anticipata e che quindi diventa immediatamente disponibile per far fronte a eventuali necessità urgenti o emergenze, pur tenendo conto che tali somme non raggiungono un ammontare rilevante in busta paga. La seconda cosa è calcolare quanto si guadagna e quanto si perde. Qui interviene il meccanismo di tassazione: l’aliquota separata sul TFR è pari al 23%, ed è quindi uguale all’aliquota del primo scaglione IRPEF per i redditi fino a 15mila euro. Significa che per i redditi fino a 15mila euro, la misura è assolutamente neutra, nel senso che non si perde nulla.
Per i redditi più alti l’anticipazione si risolve invece in una perdita, corrispondente alla differenza fra tassazione separata e tassazione ordinaria, che di fatto sale con l’aumentare dello stipendio. Vediamo una tabella con i calcoli effettuati dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro. In sintesi, facendosi anticipare il TFR, un dipendente che guadagna fino a 25 mila euro all’anno perde 50 euro ogni dodici mesi (che diventano 167 fino al 2018), poi si sale fino a una perdita di 570 euro all’anno, 1.897 in tre anni per chi ha uno stipendio da 95 mila euro.
L’anticipazione del TFR comporta una busta paga più pesante fino al 2018, e questo ha effetto sul reddito ai fini ISEE e sulle detrazioni IRPEF. Significa che ci potrebbe essere uno svantaggio per chi deve accedere a prestazioni di welfare per cui è necessario l’ISEE, in quanto l’indicatore della situazione economica equivalente sarà più alto. La somma in più incide anche sulle detrazioni fiscali sul lavoro dipendente e sui familiari. In pratica, sempre in base ai calcoli della Fondazione Studi, per un reddito di 23 mila euro, fra tasse in più e riduzione degli sgravi fiscali, c’è una perdita intorno ai 330 euro all’anno (50 di tasse in più e fino a 270 di perdita sulle detrazioni).
Tirando le somme, come correttamente rappresentato da Il Tempo in un articolo del 31 maggio 2015, era forse prevedibile che l’operazione del TFR in busta paga – spacciata dal Governo come un’occasione irripetibile per avere due soldi in più da spendere – non ha convinto gli italiani, che conti alla mano hanno subito scoperto l’inganno. Ovvero che la tassazione ordinaria è penalizzante, insomma non conviene. L’Osservatorio della Fondazione studi dei Consulenti del lavoro ha rivelato che su un campione di un milione di lavoratori solo 567, ossia lo 0,0567%, ha scelto di avere la liquidazione subito. Un vero e proprio flop a quasi due mesi dall’entrata in vigore del DPCM. Lo studio rileva inoltre che il 60% del campione non ha destinato il TFR in busta paga perché la tassazione ordinaria è troppo penalizzante. Il 20% sostiene di non aver valutato adeguatamente la scelta, mentre il 16% teme un danno alla pensione futura.
Nella platea di chi ha chiesto l’anticipo del TFR, il 75% è del Centro Nord e il 25% del Sud; il 43% sono lavoratori di commercio, terziario e turismo, il 18% dell’industria, il 9% della piccola industria, il 12% dell’artigianato e il 18% di altri settori. Il 50% di chi ha fatto richiesta è compreso nella fascia di reddito entro i 30 mila euro, il 25% fino a 20 mila, il 18,75% fino a 40 mila e il 6,25% oltre i 40 mila.
Solo il 10% dei lavoratori che hanno scelto di liquidare il TFR in busta paga lo hanno tolto da un fondo pensione integrativo, negli altri casi – precisa lo studio – il TFR era destinato all’INPS poiché dipendenti di aziende con più di 50 dipendenti. «Il dato – ha commentato Marina Calderone, Presidente del Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro – non ci stupisce. Questo insuccesso è l’ennesima dimostrazione che la politica ha spesso la percezione delle esigenze del mondo del lavoro, ma non è in stretto contatto con chi parla tutti i giorni con lavoratori e imprese».
Il recentissimo intervento normativo in tema TFR segue quello introdotto nella Legge Finanziaria del 2007, che ha istituito il “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del codice civile”, ossia il Fondo di Tesoreria INPS. Si tratta di un fondo, presso l’INPS, dove confluiscono i trattamenti di fine rapporto di aziende di medie o grandi dimensioni. Sono obbligati al versamento del contributo tutti i datori di lavoro del settore privato con almeno 50 addetti, con esclusione dei datori di lavoro domestico.
Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF di Luglio 2015