Di Paolo Bertoli
(Dal Sole 24 Ore e dal Web)
Per sostenere la crescita e lo sviluppo economico l’Europa, e le imprese Italiane in particolare, devono puntare sicuramente sull’internazionalizzazione. Se fino a pochi anni fa per un’azienda scegliere di internazionalizzare era un’importante leva competitiva, oggi è diventata una necessità per la sopravvivenza. Ci sono molte piccole imprese italiane che hanno capito l’importanza di aprirsi all’estero e che hanno saputo cogliere la sfida. Queste aziende, nonostante la sensibile contrazione della domanda interna, oggi riescono a distinguersi con performance economiche sopra la media. Mostrano risultati nettamente migliori di chi si è limitato al mercato domestico e, dunque, appaiono più solide e più competitive. In Italia abbiamo ancora poche aziende che esportano. Oltre 70 mila imprese potrebbero entrare nel flusso della domanda internazionale, ma non ci riescono per carenze culturali, di struttura interna e purtroppo anche del sistema Paese che non offre la necessaria assistenza.
Un recente report di Sace confronta il livello di internazionalizzazione delle PMI italiane, tedesche e spagnole, con analogo numero di dipendenti e fatturato. L’Italia non è inferiore in termini di produttività, ma gli sforzi per intensificare il livello di internazionalizzazione non sono abbastanza. E anche gli spagnoli ci battono. Tra il 2007 e il 2013 il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil è stato di 7,5 punti percentuali in Germania, 4,5 in Spagna e -0,9 in Italia (pari a circa 13 miliardi in meno a valori costanti). Il saldo import-export positivo di questi ultimi anni è infatti imputabile prevalentemente a una forte diminuzione delle importazioni a seguito della riduzione dei consumi interni, più che a un salto di qualità in avanti dell’export, che è rimasto pressoché invariato. In particolare Germania e Spagna, che già nel 2007 registravano rispettivamente un’incidenza dell’export sul Pil del 47% e 31%, nei sei anni trascorsi hanno ulteriormente accelerato la loro presenza nei mercati esteri ed è prevedibile che in futuro continueranno ad allungare le distanze. Nel 2017 la Germania raggiungerà un’incidenza dell’export sul Pil del 58% (25 punti percentuali più dell’Italia), la Spagna del 41% (+ 8 punti percentuali). Un risultato ottenuto grazie a una corretta pianificazione e a una strategia di diversificazione dei mercati di destinazione, pensata e realizzata per tempo.
Tra il 2000 e il 2013 le esportazioni tedesche e spagnole verso l’Europa sono cresciute a un ritmo doppio rispetto a quelle italiane. Le merci e i prodotti indirizzati verso i Paesi avanzati extra-UE hanno registrato incrementi superiori di 4-6 volte.
Se la taglia small delle nostre PMI viene spesso additata come il limite principale, in Europa non siamo soli. Proprio a parità di dimensione, le PMI straniere hanno una propensione all’export molto più marcata. In Germania oltre il 15,2% delle imprese appartiene alla fascia 10-49 dipendenti (rispetto al 4,8% dell’Italia, al 5,2% della Spagna, al 4,6% della Francia), ma il 47% vende merci oltreconfine. Nel nostro Paese le piccole aziende “internazionali” sono solo il 29%, mentre in Spagna addirittura il 48%.
Analoghe differenze si riscontrano per le imprese di dimensione superiore: 50-249 dipendenti e oltre 250 dipendenti. Secondo un’indagine Istat condotta su 30 mila imprese con oltre 20 dipendenti, il 51% ha visto crescere il proprio fatturato estero tra il 2010 e il 2013, e in 2-3 casi i risultati sui mercati internazionali hanno mitigato la riduzione del fatturato domestico.
Le potenzialità ci sono: a settembre 2014 le esportazioni sono aumentate dell’1,5%, sostenute dai mercati extra-UE (+4,1%). I prodotti Made in Italy, un marchio di eccellenza internazionalmente riconosciuto, si confermano ai vertici della classifica mondiale del commercio internazionale nei settori di forza dell’Italia (beni strumentali, moda, arredo, alimentare, ecc.). Ma su circa 4 milioni di PMI presenti sul nostro territorio, solo 200 mila esportano: il 50% del fatturato estero (145 miliardi) è realizzato da 1.300 imprese con oltre 1.300 addetti e il 40% da PMI che hanno tra i 10 e i 249 dipendenti.
Se nel 2018 riuscissimo a raggiungere un’incidenza dell’export sul Pil del 44% (oggi siamo al 30%), pari al dato medio tra l’export/Pil della Germania e quello della Spagna nel 2013, l’impatto sulla nostra economia sarebbe straordinario: in tre anni si genererebbero in Italia 40 miliardi di euro in più di esportazioni aggiuntive l’anno, una crescita del 9% rispetto al Pil attuale e, di riflesso, 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro. E senza andare in mercati troppo difficili. Metà di questo nuovo export potrebbe infatti essere recuperato nei mercati emergenti a basso-medio rischio e in crescita. Ciò nonostante, le medie imprese italiane riescono a battere la crisi mettendo a segno un aumento dei ricavi. È l’effetto internazionalizzazione a spingere i conti delle PMI del Made in Italy, che vedono crescere il loro giro d’affari di circa il 2%. È questa la crescita media messa a segno dal 58% delle mid cap italiane negli ultimi dodici mesi. Fatturato in calo, invece, per un’azienda su cinque.
Tra le aree d’investimento, il trend è dato stabile o in crescita rispetto all’anno scorso: ci sono il capitale umano, i beni strumentali e la ricerca di innovazione per raggiungere segmenti di mercato meno esposti alle guerre dei prezzi. Le aziende osservate sono quasi inarrivabili per la capacità di coniugare competenze tecniche e design. Anche per questo motivo i nuovi Paesi emergenti vengono in Italia a fare shopping di medie imprese virtuose.
Nel nostro mid-market si stanno inoltre facendo strada delle imprese a proprietà familiare, ma con una gestione manageriale che non teme il confronto internazionale e, soprattutto, sa assecondare le esigenze della crescita.
L’economia italiana oggi mostra un sistema industriale polarizzato tra imprese a elevata performance, fortemente esposte sui mercati internazionali e presenti con insediamenti all’estero, e imprese in forte difficoltà, in prevalenza orientate al mercato interno. L’internazionalizzazione deve quindi essere un argomento primario da porre in discussione per la definizione di piani strategici che possano assicurare alle nostre aziende la capacità di sfidare mercati sempre più esigenti e competitivi.
Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF di Gennaio 2015